Profili sui social network e carta d'identità: perché non è possibile
L'idea di "schedare" tutti i cittadini che abbiano un profilo social pone problemi tecnici, giuridici e politici insormontabili.
L’idea di “schedare”, in generale, tutti coloro che accedono a Internet o - con azioni più mirate - tutti coloro che accedono ai social network (ma poi, ci si domanda: quali social network/piattaforme? Solo Facebook, Twitter e YouTube, o le decine di social e piattaforme che oggi vengono utilizzate in alternativa o in parallelo, soprattutto dagli adolescenti?) non è di certo nuova.
Non è nuova neppure l’idea, per chi si occupa ex professo di queste materie da tempi non sospetti, di schedare tutti coloro che si collegano in qualsiasi modo a una rete (arrivando persino, in alcuni Paesi, a proporre degli identificativi inseriti nei dispositivi hardware stessi che il soggetto acquista, e che verrebbero così abbinati alla persona che ha effettuato l’acquisto. Proprio come se la tecnologia fosse un’arma). Se ne parla da più di vent’anni, soprattutto in occasioni di (asserita) crisi sociale/tecnologica o di estemporanei rigurgiti securitari (spesso con finalità elettorali).
Un’idea di questo tipo, però, vede all’orizzonte degli ostacoli reali che sono, come dovrebbe essere ben noto, impossibili da superare e che, solitamente, popolano tre ambiti di riflessione da tenere ben distinti tra loro. Questi sono, in sintesi, i) problemi di fattibilità tecnica, ii) problemi di fattibilità giuridica e iii) problemi di fattibilità politica. Tutti e tre strettamente connessi tra loro, ma con problemi e questioni indipendenti. Vediamoli uno a uno.
1. I problemi di fattibilità tecnica.
Prima di fare qualsivoglia proposta tecnologica, occorrerebbe valutarne la fattibilità tecnica. Ciò soprattutto in Italia, dove gli ultimi vent’anni hanno dimostrato a tutti come anche progetti enormi ed essenziali alla base della cosiddetta “amministrazione digitale” abbiano sofferto, poi, grandissimi problemi di implementazione concreta. Penso sia chiaro a tutti che non siamo uno Stato assai evoluto dal punto di vista digitale e che, soprattutto, l’infrastruttura pubblica si trascina dietro, da anni, problemi insormontabili legati alle vicissitudini politiche, e ai relativi equilibri, di questi ultimi decenni.
Se dovessimo, comunque, valutare in astratto, come puro esercizio teorico, una possibile proposta di “schedatura” nazionale (e identificazione) di tutti i cittadini che usano un profilo sui social, una tale proposta potrebbe riguardare i) un obbligo per le piattaforme di identificare gli utenti, o ii) un obbligo per i cittadini di identificarsi in qualche modo prima di usare i social, o iii) un obbligo per un ente terzo di "certificare" i cittadini e, poi, comunicare l'esito positivo alle piattaforme.
Partiamo con una riflessione sul primo punto: una legge che obblighi le piattaforme a permettete l’accesso al loro ambiente solo dopo l’identificazione con un documento di identità. In primis, cosa si intenderebbe per piattaforma? Sicuramente il Legislatore avrebbe in mente Facebook, Twitter e YouTube, che sono visti come tre vettori principali per espressioni d’odio, ma esiste un mondo fatto di social network popolati dagli adolescenti, così come di social network esteri o "verticali", creati anche su singoli topics. Inoltre, vi sono i blog e le pagine personali. Sarebbero poi, coperti, ad esempio, anche i commenti in coda agli articoli di quotidiano (luoghi dove spesso circola odio?) e dove il commentatore si può creare, appunto, un "profilo"?.
In pratica, una proposta che volesse obbligare le piattaforme a identificare chi parla, dovrebbe individuare dapprima quali piattaforme (e parleremmo comunque di decine di milioni di individui) e, poi, come raccogliere i documenti di identità e come verificarli, conservarli e proteggerli (con conseguenti problemi di sicurezza, posto che oggi le fotocopie/scansioni delle carte di identità sono tra i documenti più ricercati dai criminali).
Ciò comporterebbe una spesa di gestione enorme soprattutto per le piccole realtà (penso ai quotidiani di provincia), e permetterebbe comunque al cittadino/utente di operare su quella stessa piattaforma “entrando” da un altro Paese per aggirare il controllo.
Inoltre, una proposta di questo tipo presupporrebbe una collaborazione tecnica delle piattaforme, che è al momento remota.
In sintesi, dal punto di vista tecnico, obbligare tutte le piattaforme oggi esistenti, compresi social e blog, a domandare ai cittadini italiani (e solo a loro) un documento di identità, non è sostenibile nei tre ambiti i) della fattibilità concreta, ii) delle misure di sicurezza necessarie e dei costi, iii) della facilità con cui si potrebbe aggirare. Senza contare che la piattaforma dovrebbe prendere in considerazione tre categorie di documenti di identità da gestire: i) maggiorenni, ii) minorenni che ai sensi del GDPR e della normativa italiana compiuti i 14 anni potrebbero dare il consenso al trattamento dei propri dati per alcuni servizi della società dell’informazione, iii) genitori che iscrivono minorenni.
La seconda proposta potrebbe riguardare, invece, un obbligo diretto al cittadino. Ossia il cittadino, se non si dovesse iscrivere caricando un documento o identificandosi, verrebbe in qualche modo sanzionato.
Anche in questo caso, mi riesce impossibile comprendere il possibile controllo tecnico da effettuare per comminare simili sanzioni. Senza contare che l’ordinamento giuridico già copre possibili comportamenti “anomali” di un utente (si pensi al reato di sostituzione di persona, o di diffamazione).
La terza proposta potrebbe riguardare una sorta di “società esterna”, ente certificatore, che raccogliesse tutti i documenti di identità degli utenti e dialogasse con le piattaforme per comunicare il “via libera” al soggetto identificato.
Oltre alla necessaria collaborazione con le piattaforme, in questo caso vi è un profilo di rischio, e di costi, enorme. Si centralizzerebbe la raccolta di documenti di identità, con conseguente pericolo di data breach, e di gestione di questa società. Senza tralasciare il necessario parere del Garante Privacy che, per tradizione, è sempre stato contrario alla raccolta di simili documenti.
Se ai tre aspetti poco sopra elencati aggiungiamo la facilità, oggi, con cui si può entrare in rete e creare profili aggirando i limiti nazionali, collegandosi con VPN o siti all’estero, in una rete che è nata geneticamente per aggirare simili tipi di controllo, appare chiaro come una simile proposta sia tecnicamente inattuabile o, al limite, attuabile con costi e rischi che non sarebbero sostenibili. Il solo pensiero di poter individuare un social network nazionale, o "italiano", da poter controllare, quando la società digitale ha da tempo eliminato l’idea di confini, è un errore marchiano.
2. I problemi di fattibilità giuridica
Il secondo grande tema sono problemi di fattibilità e opportunità giuridica, ovvero l’idea, sbagliata, che il quadro giuridico attuale non possa essere sufficiente per gestire gli episodi d’istigazione all’odio o di disinformazione oggi circolanti in rete.
In realtà, non è così. Veniamo da anni di iper-produzione di norme che hanno disciplinato anche aspetti della rete e del digitale, per cui la scusa del "Far West tecnologico", o della "rete fuori controllo", è ormai una semplice scusa per giustificare politiche liberticide.
Il pensare di risolvere il problema dell’odio identificando gli utenti (con una sorta di minaccia preventiva: “guarda che so chi sei”) quando è noto come la maggior parte di chi odia lo fa, oggi, con nome e cognome, per attirare consensi e generare viralità dei contenuti ma, soprattutto, perché vede che i suoi politici di riferimento, o le sue testate/quotidiani/giornali di riferimento, lo fanno senza problemi, non ha senso.
Il problema dell’odio si risolve cambiando la cultura, abbassando l’asticella della tolleranza all’odio (oggi altissima), riportando al centro la cultura della legalità, dell’affettività, del rispetto dei soggetti deboli e delle minoranze nel nostro ordinamento. Lo si fa condannando per primi quei rappresentanti delle istituzioni, della politica, dei media che da anni usano l’odio e la disseminazione di false informazioni per raccogliere consenso e, ora, gridano allarme.
È sufficiente andare a scorrere i toni, e i tweet, di molti politici che ora si stanno stracciando le vesti e si lamentano del web che sarebbe diventato ingestibile per comprendere quanta ipocrisia ci sia in queste proposte.
Il tema di come fronteggiare odio e disinformazione nella società attuale è un tema enorme che non si risolve con un documento di identità ma analizzando con cura tutti gli aspetti collegati ai diritti nella società digitale e senza attaccare, sempre, le piattaforme (che sono ovviamente il soggetto più visibile).
Anche io parlo, nel mio ultimo libro, di possibilità di alterare i principi democratici, ne parlava già Rodotà, ne parla spesso Bodei, ne parla il Garante Soro. Certo, può essere visto come un pericolo concreto. Ma l’attacco in corso al pluralismo, alla libertà per l’elettore di informarsi correttamente, alla creazione di bolle di disinformazione, a un cattivo uso di polarizzazione e intermediazione non è certo collegato all’identità, o riconoscibilità, degli utenti in rete. C’è un problema giuridico? Cerchiamo di capire dov’è, ma senza slogan e sparate. Cerchiamo di capire se l’attuale disciplina dei reati di opinione abbia necessità, in questo periodo storico, di una revisione, oppure se il conflitto in corso tra l’approccio nordamericano, più libertario, e quello europeo, più restrittivo, abbia bisogno di essere in qualche modo mitigato.
3. I problemi di fattibilità politica
Infine, c’è un problema politico, ed è l’influenza concreta che possa avere un’idea simile nei confronti delle piattaforme che vedono l’Italia, e l’Europa, non sempre come un interlocutore da prendere in considerazione.
Siamo certi che una proposta di questo tipo potrà “costringere” decine di piattaforme e fornitori di servizi a seguire tali regole, o le piattaforme continueranno senza problemi a gestire i loro contenuti in base ai loro principi?
L’influenza dell’Italia sulla politica di gestione dei contenuti di istigazione all’odio delle piattaforme è sinora stata inesistente. Del resto sono piattaforme che si dovrebbero preoccupare delle questioni “locali” di quasi 200 Stati nel mondo.
Il lanciare una proposta senza basi di studio, senza analisi del quadro d’odio, con la semplice indicazione che visto che il web è una fogna allora occorre un patentino, una identificazione, una carta di identità per scrivere, non ha alcun fine se non quello di attirare attenzione e di fare del terrorismo preventivo.
Ci sarà un disegno di legge? Lo valuteremo con cura, punto per punto, come già sono stati valutati gli altri fermi in Parlamento e anch’essi, ovviamente, irrealizzabili nella pratica.
Ma il sostenere che il problema dell’odio sia collegato all’identità del soggetto è falso. Conosciamo bene, uno per uno, coloro che odiano. Conosciamo i profili. Conosciamo i gruppi. Conosciamo le pagine. Conosciamo chi alimenta odio direttamente e indirettamente. Conosciamo l’odio hot, violento e sbracato, e quello cool, subdolo e finto-educato. Non c’è bisogno di schedarli uno per uno, né schedarli servirebbe a qualcosa, perché odiano con nome e cognome.
Sono proposte, quindi, inattuabili tecnicamente (o attuabili con costi e problemi di sicurezza non sostenibili), inattuabili giuridicamente, inattuabili politicamente (sempre se si vuole mantenere una politica rispettosa dei diritti e dei principi, sia chiaro).
Il tutto avviene in un quadro che ci appare sempre più triste, quello italiano, dove l’attenzione per la protezione della società dell’informazione e dell’ecosistema digitale sta andando completamente a scomparire anche nei partiti che, per tradizione, l’hanno sempre portata avanti e difesa.
Non c’è più una politica che cerca di spingere la tecnologia in senso positivo, come leva per l’economia e per la società, ma le piattaforme sono da tassare, gli utenti da schedare, l’anonimato da reprimere, la privacy di tutti da violare.
Una guerra in corso, tra politica e piattaforme/società digitale, in un Paese che è anni luce indietro, rispetto agli altri, soprattutto nel settore pubblico.
Non sono, questi, bei segnali, indipendentemente dalla fine che faranno simili proposte. Non c’è più nessuno che protegga l’ecosistema digitale, e i diritti nella società tecnologica. Il problema è che tutta la società sta diventando, o è diventata, società tecnologica, e il proteggere i diritti in questo ambito significa proteggere i diritti di tutte le persone.