Legal Tech Movies (S01 E02): "The Great Hack"
Il film documentario “The Great Hack”, trasmesso di recente su Netflix, è stato presentato come il primo, vero atto di indagine sul clamoroso caso che ha riguardato Cambridge Analytica.
Diretto da due registi d’esperienza, Jehane Noujaim e Karim Amer, è stato prima presentato, e apprezzato, al Sundance Film Festival e, poi, trasmesso su Netflix dal luglio 2019.
Si tratta di un documentario che prospetta, attorno al caso di Cambridge Analytica, diversi spunti narrativi tutti molto interessanti: il rapporto con le presidenziali americane, ovviamente, ma anche l’influenza sulla campagna per la Brexit, la psicopolitica e la profilazione dell’elettore per persuaderlo e orientarlo verso determinate scelte e, in generale, la descrizione di un sistema tanto innovativo quanto potente per alterare gli equilibri democratici di un Paese.
Il taglio del documentario è assai vivace e piacevole: alterna interviste a spezzoni più descrittivi (alcuni anche accademici), dati e grafici e alcune riprese da eventi ufficiali (conferenze stampa, audizioni, telegiornali). Ciò consente di godersi quasi due ore di un tema assai complesso in maniera “indolore” e con modalità che svelano pian piano anche gli aspetti più oscuri di questo sistema.
Una persona centrale, nel film, è Brittany Kaiser, già stagista nella campagna elettorale di Obama e che decide, con una scelta personale molto radicale (e contestata) di passare a lavorare per Cambridge Analytica e, quindi, per Trump. Brittany Kaiser ha anche scritto un libro, di recente, sulla sua esperienza (“La dittatura dei dati”, in Italia pubblicato da Harper Collins): nelle pagine del volume tanti aspetti, solo accennati (per motivi di tempo) nel documentario, vengono descritti con molta più precisione.
Il film si apre con una descrizione introduttiva – una specie di “summary” – sul problema principale che l’opera affronta, anche da un punto di vista investigativo: nella società digitale odierna, e sulle piattaforme, il nostro comportamento viene analizzato. Questo è il motivo per cui gli annunci pubblicitari che riceviamo sono collegati ai nostri gusti: meglio gli algoritmi di profilazione funzionano, meglio sono in grado di prevedere il nostro comportamento, e questi algoritmi si basano non solo sulla analisi dell’atto di condividere le nostre esperienza (e dei nostri amici o contatti collegati) ma si alimentano anche con i nostri ricordi, lo storico di informazioni presenti in rete che ci riguardano.
Questi dati, poi, vengono estrapolati in blocco e gestiti da un comparto industriale enorme che riduce tutti gli utenti/persone in merce. Il problema è che la maggior parte degli utenti non percepisce questo passaggio, ossia l’essere diventati merce, ma ha l’idea del dono, del fatto che connessione, servizi, funzioni siano gratutite, senza leggere i termini e le condizioni che, invece, chiariscono come lo scambio sia con i nostri dati, sovente anche quelli più intimi.
La conseguenza, si dice nel film, è ovvia: tutte le mie interazioni, le ricerche effettuate nei motori, i “mi piace” regalati, le localizzazioni, l’utilizzo di carte di credito, tutti questi elementi vengono raccolti in tempo reale e collegati alla mia identità, al fine di fornirmi, subito dopo, contenuti pensati per me e visti solo da me. E queste operazioni vengono effettuare per ciascuno di noi, in ogni momento. Il primo, grande terreno di prova per operare un simile sistema di profilazione è stato, come è noto, il contesto elettorale del 2016 negli Stati Uniti d’America, in un mondo politico diviso e in subbuglio ("polarizzato") che si è rivelato, vedremo, luogo ideale per testare tali algoritmi.
Uno studioso, proprio nelle scene iniziali, ricorda (come se ce ne fosse bisogno…) che raramente (potremmo dire quasi mai…) gli utenti fanno un’analisi accurata delle app prima di installare, non leggono l’informativa, si iscrivono a piattaforme e servizi senza avere la minima idea della fine che faranno i loro dati.
Non ci si deve stupire allora, in questo contesto diffuso e generalizzato di "ignoranza", se alcune realtà possono fare un uso improprio dei dati e, soprattutto, possono arrivare a condizionare il presente e il futuro (soprattutto dei più giovani) e, in generale, possono condizionare grandi eventi politici, economici ed elettorali.
Si cita, ovviamente, il caso di Project Alamo, il sistema informatico/organizzativo alla base della campagna elettorale di Donald Trump che poco prima dell’election day ha visto anche investimenti di oltre un milione di dollari al giorno in inserzioni pubblicitarie sulle piattaforme e su Facebook.
Cambridge Analytica, e qui vi è la prima connessione interessante, lavora al Progetto Alamo, contribuisce all’attività del centro di elaborazione dei dati e consiglia su quali Stati concentrarsi nell’azione finale di marketing elettorale. La potenza di questo sistema è incredibile: si pensi che, nella fase di invio di messaggi personalizzati agli elettori, il sistema era in grado di individuare per ciascuna persona oltre 5.000 data point (elementi caratteristici di quella persona, dati sensibili) e il tutto avveniva senza che quella persona lo sapesse. Detto in altri termini, queste realtà agivano nell’ombra costruendo dei profili di elettori americani che erano talmente precisi da sapere di più dell’elettore di quanto l’elettore sapesse di sé stesso.
Quando il mondo è venuto a conoscenza, nei dettagli, delle attività che svolgeva la “società madre” di Cambridge Analytica, denominata SCL (una realtà che, tralaltro, dalla Gran Bretagna gestiva i dati di cittadini americani), alcuni studiosi hanno cominciato a sostenere come la tutela dei dati dovesse essere considerata un diritto fondamentale e come vi fosse un diritto costante a sapere che cosa c’è dietro questi trattamenti, quali sono i dati associati ai nostri profili e come possa funzionare questo sistema, che deve essere trasparente e mostrarci tutte le connessioni tra i vari eventi senza nasconderci nulla.
SCL e Cambridge Analytica, come è noto, avevano come core business l’analisi dei dati finalizzata a raggiungere, con messaggi mirati, un pubblico di riferimento, e attorno a questo business hanno iniziato a offrire un simile servizio soprattutto ai politici interessati a raggiungere con modalità innovative di comunicazione i loro potenziali elettori (ma anche gli elettori indecisi).
Il documentario espone con grande cura due eventi che chiariscono molto bene la potenzialità dei servizi offerti: la campagna elettorale portata avanti da Ted Cruz e lo sviluppo sempre più sofisticato di sistemi di analisi di dati psicologici, dei “mi piace” su Facebook, di comprensione e “dominio” della potenza dei dati e della psicografica per oltre 14 mesi. Al termine di questo perfezionamento (e allenamento) la società è pronta per offrire a Donald Trump un servizio che lo farà vincere: si parte con un sondaggio, si continua con l’elaborazione di un modello, si arriva a prevedere la personalità di ogni adulto americano (visto che la personalità condiziona il comportamento) e si creano contenuti (soprattutto grafici e video) perfettamente ritagliati su quelle personalità. E il gioco è fatto, con la tecnologia che può fare, davvero, una grande differenza.
Nella parte centrale del film ci si concentra anche (giustamente) sugli aspetti investigativi, che non sono affatto semplici: basti sapere che sono numerosi i giornalisti investigativi che hanno iniziato a indagare, in Regno Unito e in Europa, sui possibili rapporti e collegamenti tra le attività di Cambridge Analytica e la campagna pro-Brexit. Il quadro appare subito molto complesso (e fumoso): iniziano a uscire i contatti con Nigel Farage, con Steve Bannon e, seppur indirettamente, con Facebook (con aspetti che riguardano l’uso dell’intelligenza artificiale per estrarre informazioni dalla piattaforma, profilando le persone e i relativi contatti).
Nel film si riporta la testimonianza molto precisa di Chris Wiley, un data scientist di grande esperienza, tra i fondatori di Cambridge Analytica, che svela i tratti principali di quella che lui definisce come una vera e propria "macchina per la propaganda".
Vengono, poi, citati i lavori e le attività di altre due menti importanti di questo sistema, Alexander Nix e Aleksandr Kogan, che sviluppano insieme dei cosiddetti “test della personalità” che permettono non solo di raccogliere informazioni dagli utenti di Facebook, ma anche di accedere ai dati dei loro amici e della rete sociale e generare, così, nuova informazione ancora più precisa. Gli autori del documentario enfatizzano, su questo punto, la mancanza completa di etica: si “gioca” con la psicologia di una intera popolazione senza che ne sia cosciente e, soprattutto, consenziente.
La fase delle indagini si apre, nel documentario, con le azioni dell’ICO inglese (l’autorità che si occupa di protezione dei dati) e le ispezioni nella sede di Cambridge Analytica; poco dopo anche Facebook verrà accusato di aver tenuto nascosto questo fatto e simili meccanismi fino all’ultimo (ossia quando lo scandalo era già esploso). Al contempo, anche il Parlamento inglese inizia a indagare sul problema delle fake news e la loro influenza sul risultato finale del referendum sulla Brexit.
Nella parte finale del film, molti minuti sono dedicati a illustrare il coinvolgimento di Brittany Kaiser, attorno alla quale viene ritagliato un ruolo chiave anche, e soprattutto, quando decide di dire tutto e diventa una informatrice. L’esperta sostiene senza mezzi termini che le due campagne elettorali, quella pro Brexit e quella di Trump, sono state condotte illegalmente, sfruttando sia i dati, sia le persone e la loro psicologia e minando il senso di libertà e di autonomia di ogni individuo sino a compromettere, così, il senso stesso di democrazia.
Nel quadro così descritto, il ruolo di Facebook, e la sua attività di costante monetizzazione dei dati personali degli utenti, sembrano disegnare questa piattaforma come la più adatta su cui condurre esperimenti di questo tipo e sulla quale individuare soggetti influenzabili (che si possono convincere a cambiare parere) e creare e veicolare contenuti personalizzati per influenzare gli elettori (che vengono “bombardati” su qualsiasi piattaforma fino a quando non condividono quella visione del mondo).
Questo è il senso del documentario: la possibilità di forgiare messaggi che siano finalizzati a cambiare il comportamento dei soggetti. E che ci riescano.
Mentre Zuckerberg si reca a testimoniare al Congresso circa il cattivo utilizzo degli strumenti della sua piattaforma, e domanda scusa al mondo, appare chiaro a tutti come questa idea della psicografia come una vera e propria arma che possa condizionare gli equilibri di altri Stati, sia in grado di generare una perfetta guerra psicologica.
L’eco di ciò che successo genera, ovviamente, ulteriore attenzione e altre indagini. Si aprono dibattiti sulle leggi elettorali (se vadano adeguate o meno a questo nuovo quadro), si discute delle tornate elettorali in Brasile e in Birmania, dove appare provato l’uso di WhatsApp e di Facebook come piattaforme per la diffusione di fake news e di messaggio d’odio razziale, così come viene valutato sotto una nuova luce il possibile intervento dei russi durante le elezioni USA per alimentare incertezza, paura e odio.
“The great hack” andrebbe visto, secondo me, soprattutto per il fatto che alla fine è un film sulla manipolazione degli individui.
Questa manipolazione avviene con strumenti psicologici che erano in larga parte sconosciuti e la cui portata era prevedibile soltanto per gli addetti ai lavori. In realtà, riguarda tutti noi, perché i dati che vengono prelevati, catalogati, correlati e sfruttati sono i nostri.