Il "futuro delle professioni" e le "professioni del futuro"

Quale sarà il futuro delle professioni, e come si disegnerà, nei prossimi anni, il professionista del futuro? Ne parliamo a margine di un libro di Susskind.

Il "futuro delle professioni" e le "professioni del futuro"

L'incontro in Deloitte

Questa settimana (di giovedì) ho partecipato a un pregevole evento, nella sede milanese di Deloitte, organizzato attorno alla presentazione della traduzione in lingua italiana di un libro di Richard e Daniel Susskind, edito da Rubbettino, intitolato “Il futuro delle professioni. Come la tecnologia trasformerà il lavoro dei professionisti”.

A fare gli onori di casa, con grande professionalità e dinamismo, è stato l’Avvocato Carlo Gagliardi, che ha scritto la Prefazione al Volume, ne ha curato la traduzione e, soprattutto, ha dialogato con lo studioso autore del libro, presente in sala, e con altri ospiti, su quale fosse, appunto, il “futuro delle professioni” e su come saranno le “professioni del futuro”.

Consiglio, ovviamente, la lettura del corposo libro a tutti coloro che volessero affrontare queste tematiche con un approccio più rigoroso e completo. Dal canto mio, semplicemente, approfitterò di un sabato mattina insolitamente tranquillo per condividere con voi  alcune considerazioni, in maniera molto informale, che mi sono venute in mente proprio all’esito dell’evento di Deloitte Legal.

Un primo punto critico: la mancanza di una "infrastruttura"

Il primo punto critico che mi è venuto in mente, e che penso sia chiaro a tutti/e, è il fatto che grandi progetti informatici richiedano sempre grandi infrastrutture alla base. Infrastrutture che siano efficienti e moderne, precedute da un’azione di programmazione, di pianificazione economica, di progettazione e di metodo assai solida. Non si possono, in altre parole, costruire case sulla sabbia.

Per comprendere il futuro della digitalizzazione in Italia (anche) del mondo delle professioni dobbiamo allora tener conto in primis, purtroppo, dei vent’anni passati e della creazione di un quadro sociale e politico del digitale nel nostro Paese che è sempre stato fragile, frammentato, disorganico, poco aperto, poco trasparente e, soprattutto, non interoperabile.

Evitiamo, in questa sede, di ricordare i progetti iniziati e mai finiti, i progetti iniziati e poi cambiati a ogni mutamento di Governo, i siti web "di Stato" fatti morire per questioni, o inimicizie, personali, le centinaia di milioni di euro buttate in progetti nati già vecchi, e poi i tavoli, le commissioni, i gruppi di lavoro e le autorità aperte e poi chiuse a seconda, come direbbe Einaudi, dell'andazzo politico.

Un secondo punto critico: l'ignoranza diffusa sul tema

A una mancanza cronica di un "tessuto digitale" serio in Italia va aggiunta, purtroppo, l’incompetenza tecnologica di almeno un terzo dei professionisti in ogni ambito. Per capirci: un terzo dei politici, degli avvocati, dei magistrati, dei notai, dei dipendenti pubblici, degli insegnanti, dei professori universitari, dei medici, dei commercialisti, e così via). Spesso parliamo di persone che rivestono ruoli di responsabilità o, persino, di potere ma che mancano delle competenze tecnologiche minime, o "di base" che dir si voglia, secondo gli ultimi indici dell’Unione Europea, in particolare l'indice DESI.

Ecco, allora, che un’evidente mancanza di strategie politiche ben definite (il digitale, in Italia, è sempre stato lasciato ai margini della politica e degli investimenti, e prova ne è che non abbiamo un Ministero per il digitale), l’indifferenza o una vera e propria ostilità di intere categorie professionali (che hanno timore delle tecnologie e del loro effetto, soprattutto perché non le conoscono, e che sono impermeabili al cambiamento, tendono alla conservazione e, in alcuni casi, arrivano a boicottare qualsiasi progetto sul digitale), lo stanziamento ridicolo di fondi che dovrebbero, al contrario, alimentare grandi progetti (si pensi a tanti progetti annunciati con alla base l’intelligenza artificiale nei quali molti proponenti sembrano dimenticarsi, a fianco dei buoni propositi, dei costi reali degli stessi), sono tutti fattori reali che si contrappongono, in questi mesi, a un entusiasmo diffuso - direi quasi un'euforia - fatto di decine e decine di incontri, convegni, seminari e tavole rotonde sulla necessaria trasformazione digitale delle professioni. Siamo, però, obiettivamente in una fase di stallo, se non di regressione, legata, oltre ai fattori poco sopra elencati, al periodo del Covid, alla post-pandemia e alla crisi economica in corso.

Alcune riflessioni sul punto

Durante il mio talk all’evento ho esposto in pochi minuti  l’esempio della strategia digitale dell’India, sicuramente l’area del mondo più interessante da osservare in questi mesi, insieme alla Cina e al Giappone.

L’India, come è noto, sta preparando il suo “Digital India Act”, la sua nuova normativa omnicomprensiva sul digitale, ma lo sta facendo dopo che, nei vent’anni precedenti, ha creato, in ordine: i) un sistema identificativo unico per i cittadini; ii) un sistema di pagamento unificato utilizzabile da dispositivi mobile per i circa 650 milioni di indiani connessi in rete, iii) una sorta di cloud privato/pubblico per ogni cittadino per lo scambio di documenti ufficiali tra autorità e tra privati, e iv) decine di app governative pensate per risolvere problemi specifici legati al territorio (medici, legati all'agricoltura, di linguaggi e dialetti, etc.). Una volta creata l’infrastruttura, si diceva, vi si può costruire sopra qualcosa, ad esempio, con l’intelligenza artificiale. Però, prima, l’infrastruttura serve!

Una grave lacuna che vedo, e sento, in Italia, tenendo a mente anche l'esempio indiano, riguarda proprio la proposta di "grandi opere" e di progetti altamente innovativi con, sotto, una base tecnologica nel tessuto sociale, aziendale e pubblico estremamente fragile e, in molti casi, inefficiente o inesistente.

Si sta pensando, insomma, all’intelligenza artificiale nel sistema processuale, o negli studi legali, o all'avvento del giudice robot o, ancora, alla creazione di un portale unificato di tutto il mondo della giustizia quando, in molte realtà (non solo) di provincia avvocati e giudici non sanno usare la PEC né gestire gli allegati, non hanno basi di sicurezza informatica, non usano il computer, hanno reti insicure in studio, usano WeTransfer o altri sistemi di cloud amatoriali per conservare o trasferire documenti sottoposti al segreto professionale e, soprattutto, si irritano non appena viene fatto loro notare che, oggi, le competenze tecnologiche sono indispensabili per qualunque professione e che dovrebbero formarsi in tal senso.

“Ho studiato per fare l’avvocato” – è la risposta tipica che ci sentiamo dire quando cerchiamo di far comprendere come il mondo sia cambiato e come sia indispensabile aumentare le proprie competenze – “e già devo pensare alle mie competenze giuridiche, e a tutelare i diritti degli assistiti. Figuriamoci se mi metto anche a imparare l’informatica. Non è quello il mio lavoro...”.

Questa idea che, oggi, le competenze tecnologiche siano qualcosa di separato rispetto alla vita quotidiana, alla politica, all'attività professionale, è completamente sbagliata. Tutto il diritto è diventato informatico. Tutta la società è ormai tecnologica. Tutta la vita è digitale.

In un quadro simile, allora, quali possono essere i punti critici che stanno impedendo una reale digitalizzazione delle professioni in Italia? Una digitalizzazione, sostiene anche Susskind nel suo libro, che ben potrebbe, in molti casi, evitare l’estinzione delle professioni tradizionali o, comunque, cambiarle “in maniera gentile” per adattarle al nuovo quadro.

Alcuni suggerimenti...

1) una formazione obbligatoria di avvocati e magistrati, operatori di Cancelleria e personale di studio, in ambito informatico. Intendo, sia chiaro, un percorso educativo non solo collegato al processo telematico, o alla firma digitale, o alla PEC, o all’uso delle banche dati, ma una formazione che fornisca tutte le basi: utilizzo degli strumenti, sicurezza, protezione dei dati, difesa dai crimini informatici. Proprio come l'obbligo di conoscere le regole deontologiche.

I dati dell’Unione Europea sulle digital skills dei cittadini europei ci dicono (arrotondando un po’) che un terzo degli avvocati e dei magistrati in Italia non hanno le competenze di base tecnologiche e neppure, in molti casi, usano il computer. Parliamo di quasi 100.000 avvocati e di oltre 3.000 magistrati completamente a zero da un punto di vista tecnologico. Si pensi alla criticità del quadro.

Io vedo questo primo punto come propedeutico, proprio come il diritto privato nei corsi di Giurisprudenza: non si può pensare ad alcuna riforma tecnologica, nonostante i proclami, se non si risolve questo problema di incompetenze diffuse e, in altre parole, se non si conoscono le tecnologie (e anche l'inglese, ma qui apriremmo un altro discorso delicatissimo). L’auspicio dell’Unione Europea, si pensi, è che di qui al 2030 si possa arrivare a un 80% di cittadini europei formati sulle tecnologie. Speriamo davvero...

La formazione dovrebbe essere obbligatoria, altrimenti il sistema (anche successivo) non si potrebbe reggere su basi inesistenti.

2) una comprensione, e una consapevolezza, che l’informatica non è più “altro” rispetto a quello che facciamo, ossia al nostro “primo lavoro”. Non esiste professione, oggi, che non possa essere migliorata, corretta, resa più efficiente grazie a un uso intelligente delle tecnologie attuali, ma occorre smettere di sbuffare, nel momento in cui viene proposto un percorso educativo, credendo che sia "tempo perso", o, che ne so, ore preziose sottratte alla professione principale. Siamo nell’era digitale, e il futuro sarà sempre più rapido. Chi non si riuscirà ad adattare, scrive Susskind, è destinato all’estinzione.

3) pensiamo a questi temi, per favore, anche se per molti la “pensione è vicina”. In numerosi incontri vi è sempre quell’avvocato, o magistrato, o professionista, che dice ad alta voce, scherzando ma non troppo: "Ma tra cinque anni vado in pensione... chi me lo fa fare di iniziare, ora, ad acquisire nuove competenze? A imparare a programmare? Piuttosto inizio a giocare a golf, o a bridge, o a burraco, che quello sì che mi servirà per quando sarò in pensione”. Di solito quando si sentono affermazioni di tale tipo si registrano molti sorrisi, in sala, e persone (non solo) di una certa età che annuiscono convinte.

Il problema, però, è che se tutti ragionassero guardando al loro cortile, e sul presente, non ci sarebbe evoluzione, e non ci sarebbe neppure innovazione tecnologica. Anzi, sono proprio le persone di maggior esperienza che dovrebbero dare l’esempio, e  invitare i colleghi più giovani a formarsi.

4) l’intelligenza artificiale non può rimediare a situazioni "malate" in partenza. Oggi tutti parlano di intelligenza artificiale, anche quel trentatrè per cento, cui facevamo cenno prima, che non ha minime competenze informatiche (e si nota) e non ha la minima idea di cosa sia l’intelligenza artificiale. Ma ne parla perché ne parlano tutti.

Spesso viene veicolata l’idea che l’AI possa non solo migliorare i processi (e quello è vero: è una caratteristica di grande importanza) ma che possa risolvere il problema all’istante.

Applichiamo l’AI alla professione legale, e risolviamo per magia tutti i problemi della professione: fuga dalla professione e cancellazione dagli albi, difficoltà di recupero dei crediti dai clienti privati, da aziende e dal settore pubblico, divario di salario tra avvocati e avvocatesse, e così via.

Oppure, applichiamo l’AI al processo e tutto si risolve, dimenticandoci improvvisamente come sia stato il crollo del processo “telematico” negli anni di pandemia, e le lacune strutturali che si sono evidenziate (e che non sono ancora state colmate).

Dovrebbe apparire chiaro, invece, come l’AI non possa fare nulla in una situazione “malata” in partenza se, prima, non si risolvono gli altri problemi e, soprattutto, come possa, al contrario, amplificare i danni o generare discriminazioni. Se il dataset di partenza è “avvelenato”, insomma, non ci si può aspettare un risultato positivo.

Da dove partire, quindi? Dalla educazione, dalla formazione, dalla creazione di piccoli progetti, anche verticali, che possano far comprendere al professionista di tutti i giorni, nel contesto tipico italiano (che è molto diverso da quello che esce filtrato  dalla lente milanese) quanto l’informatica possa migliorare la vita del professionista.

Ci sono tanti progetti, portati avanti senza fondi e in uno spirito di puro volontariato da tanti avvocati e magistrati “smanettoni”, che ogni giorno semplificano la vita di piccole realtà ma che, purtroppo, si trovano a combattere contro diffidenza, politiche sbagliate, burocrazia e un’età di chi è in posizioni di potere che spesso non vuole comprendere l'impatto innovativo di tali soluzioni.

Infine, e questo è un secondo punto che è ben esposto nel libro di Susskind, occorre mettersi l’animo in pace e comprendere il fatto che le professioni stanno cambiando e stanno diventando sempre più ibride.

La multidisciplinarietà diventerà sempre di più un valore, e non un difetto, e in tanti sanno quanto sia difficile portare avanti l'idea di multidisciplinarietà e di "contaminazione" delle professioni in ambiti giuridici tradizionali e conservatori.

L’avvocato dovrà sempre più occuparsi di protezione dei dati, di intelligenza artificiale, di startup innovative, di analisi del rischio, di valutazione d’impatto dei trattamenti dei dati sui diritti.

È, in conclusione, quella idea di giurista ibrido che a Milano, in Università, portiamo avanti ormai da più di vent’anni e che non dovrebbe interessare solo i milanesi ma, come si diceva, tutti i cittadini e i professionisti.