Il "Ritorno a Birkenau" di Ginette Kolinka: la semplicità dell'orrore
Ginette Kolinka ha, oggi, 94 anni.
Una delle ultime sopravvissute ad Auschwitz, nel bel libro “Ritorno a Birkenau” (Ponte alle Grazie, 2020), scritto insieme alla giornalista Marion Ruggeri, descrive i suoi frequenti “ritorni” ad Auschwitz-Birkenau quando decide di accompagnare scolaresche e comitive nel campo di sterminio che la vide arrivare dalla Francia diciannovenne insieme ad alcuni suoi familiari. E sarà l’unica della sua famiglia a sopravvivere.
Nel dedicare il libro a tutti i suoi compagni e compagne che non hanno avuto, scrive, “la sua fortuna”, cerca di superare due ostacoli.
Il riuscire a parlare, dopo oltre cinquant’anni, di ciò che le è capitato e superare, quindi, una sua grande barriera psicologica.
E il far sì che quanto narrato nella sua testimonianza possa far riflettere le giovani generazioni sull’entità, e attualità, del fenomeno dello sterminio nazista.
Per chi arriva oggi a Birkenau, soprattutto in primavera, e aveva visto il campo di sterminio come era allora, l’impatto è fortissimo.
Oggi è un quadro di prati, fiori, bambini che giocano. Come se il tempo avesse creato uno strato di terra assai spesso sopra a tutti i cadaveri che sono ancora lì, da qualche parte. L'autrice è la prima a dire, ogni volta che scende dall'autobus: "ma non era così, allora!".
Ma per Ginette, nonostante ciò che oggi si può vedere, quello è il luogo dove, il 16 aprile del 1944, la fecero scendere, dopo tre giorni e tre notti di viaggio, e dove suo padre, suo fratello e suo nipote vennero immediatamente separati da lei. E non li vedrà mai più.
Quelli sono i momenti nei quali svanì ben presto l’idea di dover "andare a lavorare". I "camion per i più stanchi" non servivano per dei "passaggi comodi dopo le stanchezze del viaggio" verso le baracche del campo, ma per sterminare direttamente le persone sui veicoli. I loro bagagli, con tutti i loro averi, furono immediatamente separati da loro. Oggi, nei campi di sterminio riadattati a musei della memoria, molti di questi bagagli, e gli accessori contenuti nelle valigie di allora, sono ben visibili ed esposti.
Il libro descrive, innanzitutto, come si svolgeva la "vita quotidiana" nel campo, e la costante lotta per il cibo, per gli scambi e i baratti, per la dignità ma, anche, per l’igiene e la sopravvivenza.
Quello dell'ingresso nel campo è il momento, scrive l’autrice, dove "avevamo smesso di essere degli esseri umani".
Le pagine trattano di vita quotidiana, di botte, di violenza anche tra donne, di una vita che viene improvvisamente alterata dal filtro del male, dove si cerca di fare squadra ma con il rischio costante della sparizione del "complice" da un momento all’altro perchè ucciso per una banalità, o per malattie, o, peggio, con il rischio di essere traditi.
In questo ambiente, scrive l'autrice, non vi era nulla di consistente. Né nella vita, né nei rapporti, né nell’amicizia, né nel cibo, né nel peso delle detenute. Una mancanza di consistenza diffusa che altro non era che il preludio a una morte (quasi) certa o, comunque, all’annientamento fisico e psicologico anche in caso di sopravvivenza.
La fame è la sola ossessione per tutti, in quei mesi. Si stupisce, l’autrice, che non sia questa la domanda più comune da parte degli studenti che porta in visita. “Hai visto Hitler?”, domandano, piuttosto, e non come facessero a gestire l'incubo della fame.
Nel gennaio del 1945, quando i nazisti lasciano il campo per sfuggire all’avanzata degli Alleati, inizia la marcia della morte, quasi sessanta km nel gelo che causeranno la morte di altre decine di migliaia di persone. E qui è la "seconda sopravvivenza" dell'autrice, tra rivoveri, malattie, campi di lavoro, e la Francia che si avvicina.
L’arrivo a Lione, a guerra ormai finita, è, però, anche il ritorno in quella Francia e in quel paese/società che aveva mandato gli ebrei (e non solo) nei campi di sterminio. Uno Stato che l'aveva tradita in origine, insomma.
Dopo l’arrivo a casa dalla madre e dalla sorella (che vengono a sapere, tramite lei, della tragica sorte dei familiari), esplode la voglia di rifarsi una "vita normale" nel dopoguerra, una famiglia, marito e figli, ma non è così semplice, per un sopravvissuto allo sterminio.
La mente non può evitare di tornare al passato, le ossessioni per il cibo che si manifestano improvvise, senza contare il dubbio di chi avesse fatto la denuncia ai nazisti.
In questo libretto agile ma fortissimo sono descritti con un linguaggio semplice tutti questi aspetti concentrando l'attenzione sulla quotidianità e, spesso, sui rapporti tra le persone. Una prospettiva molto intima, che sicuramente ha causato sofferenza all'autrice nel ricordare ma che fa comprendere chiaramente come l'orrore fosse entrato, si diceva, proprio nella normalità quotidiana.